domenica 16 novembre 2008

Acqua ... potabile?


Così manager Montedison e politici truccavano le analisi ai danni dei cittadini

Abbiamo esponenti della classe dirigente abruzzese, attualmente in carica in vari enti ed amministrazioni, che a vario titolo sono responsabili di potenziale avvelenamento di un bacino di utenti di 500.000 persone. Fatta salva la presunzione di innocenza, è normale che continuino ad amministrare per nostro nome e conto anche in materie affini a quelle nelle quali avrebbero commesso reati tanto gravi?

La casta dei veleni - manager Montedison, funzionari pubblici, politici - non si è limitata a inquinare la val Pescara e l’acqua che per vent’anni hanno bevuto 450 mila abruzzesi. Ha falsificato le analisi, occultato documenti, eluso i controlli e addirittura, scoppiato lo scandalo, ne ha approfittato per lucrare sugli appalti. E ha causato, scrive il pm Aldo Aceto nell’atto che conclude l’inchiesta e accusa 33 persone, «un disastro ambientale di immani proporzioni».
«Immani» come i reati contestati: avvelenamento delle acque, disastro doloso, commercio di sostanze contraffatte o adulterate, delitti dolosi contro la salute pubblica, turbata libertà degli incanti e truffa. Il pm ritiene che l’industria Montedison di Bussi, nella valle a 50 chilomentri da Pescara, abbia inquinato la falda di acqua con rifiuti chimici tossici, truccando poi le carte per farla franca. E che le autorità pubbliche abbiano «insabbiato» con condotte analoghe.
Due facce - privata e pubblica - di un’unica casta. Chi faceva affari, chi carriera. Perché gli enti coinvolti sono il feudo della classe politica: sindaci, deputati, consiglieri regionali occupano presidenze e consigli di amministrazione come trampolino per più gloriose poltrone o parcheggio post trombatura.
Venti i manager Montedison - dall’amministratore delegato in giù - indagati per aver «avvelenato acque destinate all’alimentazione umana». Realizzando, dagli anni ‘60, una «mega discarica abusiva dalle dimensioni gigantesche a meno di venti metri dalla sponda del fiume Pescara e destinata allo smaltimento illegale e sistematico» di centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti tossico-nocivi, scandalo senza pari in Europa. E poi «attuando una vera e propria strategia d’impresa finalizzata a eludere gli obblighi derivanti dalla necessità di eliminare le conseguenze» dell’inquinamento.
Almeno dal 1994 la Montedison ha mentito, spiega il pm, «rappresentando una situazione distorta e diversa dalla realtà». Eloquente un appunto trovato dagli investigatori, in cui un dirigente detta la strategia di disinformazione: «nessun rischio», «l’inquinamento non esce, non c’è emergenza» e soprattutto l’inquietante «occorre non spaventare chi non sa». C’erano precise direttive aziendali per «falsificare i dati con dolose manipolazioni, soppressioni e modifiche (...) al fine di occultare la pesantissima e compromessa situazione di inquinamento». Gli agenti del Corpo forestale, guidati dal comandante provinciale Guido Conti, hanno trovato documenti redatti in due versioni: quella coi dati reali (lasciata nei cassetti) e quella con i dati falsi e tranquillizzanti, sempre divulgata. Così l’acqua scorreva contaminata da decine di «sostanze altamente nocive e tossiche per la salute dell’uomo e in taluni casi anche cancerogene» oltre i limiti di legge. Il cloroformio fino a 3 milioni di volte più del consentito.
Ma se la Montedison inquinava e mentiva, chi doveva controllare - per dire: Provincia, Asl, Ato (ente pubblico di coordinamento idrico), Asa (società pubblica che eroga l’acqua) che cosa faceva? Risponde il pm: «Concorrevano a somministrare per il consumo acque contaminate da sostanze altamente tossiche e nocive per la salute umana».
Eppure i primi segnali di inquinamento c’erano già nel 1992, ma furono ignorati come altri undici (analisi, documenti e relazioni tecniche) negli anni successivi. Tutti fermi e zitti, anche se «era assolutamente certo che le fonti di inquinamento» non erano «contingenti», ma «endemiche» e riferibili al polo chimico. Nessun accertamento, nessun provvedimento, solo una «pervicace, sistematica, persistente e consapevole lettura riduttiva del fenomeno» con «dati non veridici, manipolati o ottenuti con procedure espressamente vietate dalla legge». Al più «dispendiose e inutili soluzione tampone» come i filtri ai pozzi, peraltro con appalti truccati.
Tra i tredici amministratori e funzionari pubblici indagati, spuntano i volti del grande «partito dell’acqua» che governa l’Abruzzo. C’è Donato Di Matteo, ora capogruppo Pd alla Regione (12 mila preferenze) e papabile assessore ma prima presidente dell’Acquedotto (che per effettuare le analisi si era dotato di laureati in filosofia ma non in chimica). C’è il suo successore Bruno Catena, già sindaco Ds del Comune di Città Sant’Angelo e poi revisore dei conti della stessa società. C’è Giorgio D’Ambrosio, ex presidente dell’Ato (altro ente idrico), poi deputato della Margherita, ora sindaco Pd del Comune di Pianella «ma anche» consigliere provinciale: è accusato di aver redatto un verbale falso per poter riaprire i pozzi inquinati. C’è Roberto Angelucci, ex sindaco di centrodestra del Comune di Francavilla a Mare ed ex vicepresidente dell’Ato.
Tra gli indagati, un paio ha già conosciuto condanne dalla Corte dei conti, un altro ha patteggiato tre mesi per truffa allo Stato. Ora tutti sono accusati di aver avvelenato acque pubbliche. Insomma ben peggio che fannulloni. Possibile che tutti e tredici siano ancora ai loro posti?

scritto da ecocidio - abruzzo.indymedia.org

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